Una foto sbiadita come la memoria di quegli anni. Eppure guardandola lo sguardo si abbassa e vedo come fosse oggi i miei piccoli piedi abbronzati che camminano sulle alghe soffici, e le onde del mare che me li bagnano dopo ogni risacca. Quelli erano i baci del mare e ricordo che sorridevo e lo ringraziavo. Allora, il mare era il mio miglior amico, il mio confidente. Sedevo su uno scoglio e gli raccontavo il mio futuro. Lui ascoltava in un silenzio acquoso e ogni tanto rideva ed erano schizzi d’acqua freddi improvvisi da togliermi il fiato, e allora, tutta bagnata, mi immergevo nel suo sorriso e ridevamo insieme.
La valigia è leggera, piena solo di voglia di sole caldo e di mare turchino perché come la famosa fata deve far sparire tutta la stanchezza insieme a quella sensazione di “uff non ne posso proprio più”. Il volo è alle spalle e mancano solo 20 minuti di taxi per arrivare in albergo. La giornata è tutta davanti.
Guardo fuori dal finestrino e per
i primi 5 minuti il paesaggio mi propone campi secchi con piante di rosmarino e
timo qua e là, ma mica poi tanto qua e là e più un laggiù e un lassù. Più avanziamo,
più la temperatura del taxi scende avvicinandosi ai 12 gradi, più le uniche
cose verticali che sbucano sulla superficie della terra sono: gru, tantissime
gru, e intorno alle gru mucchi di mattoni grigi e poi muri di mattoni grigi,
che tra un mattone e l’altro lasciano passare la luce e sembra il colmo che a Malta
non usino la malta.
Arriviamo in hotel, era un 4
stelle su booking e anche sulla carta di credito, ma è evidente che dopo la
nostra prenotazione devono aver restituito le altre tre stelle a un cugino o a
un parente bisognoso e così a noi ne resta solo una. Siamo al settimo piano,
l’ascensore gracchia, le porte si aprono con l’affanno. Percorro il corridoio che
pare quello di un manicomio del secolo scorso, i muri sono decorati da numerose
macchie di umidità, mentre dal soffitto pezzi di intonaco cercano di fuggire gettandosi
a terra, a volte riuscendoci altre rimanendo intrappolati a metà.
Beh avete capito, e se tanto mi
dà tanto evitatemi la descrizione della stanza, aggiungo solo che la vista era
su un altro palazzo della stessa altezza talmente ravvicinato che mio marito ed
io avremmo potuto presentarci ai vicini
dell’altro palazzo con tanto di stretta di mano.
Non vedo l’ora di uscire da
questa stanza. E così lasciate le valige in un angolo, siamo già giù in strada.
Mi guardo intorno avvilita e delusa: ma dove siamo finiti? Ok, di fatto siamo a
Sliema sull’isola di Malta, a 2 km in linea d’aria da La Valletta. Attraversiamo
la strada che ci separa dal mare e guardo la spiaggia e la guardo ancora e
ancora. “Ma cos’è quella cosa lì?” Ho avuto un anno intenso e penso sarà stanchezza,
o forse la vista mi è peggiorata, quindi strizzo gli occhi più che posso eppure
ho gli occhiali da vista su. Cerco di mettere ancora a fuoco ma niente, io vedo
sempre una strana spiaggia senza sabbia, una finta spiaggia ricoperta di malta: cazzo,
hanno cementato la spiaggia! Allora, quella che risparmiano non mettendola tra
i mattoni va a finire qui. Guardo mio marito
e gli dico “Ci sarebbero 40 gradi
all’ombra se ci fosse l’ombra e questi deficienti hanno cementato anche le
spiagge”. Lui non mi risponde niente ma è chiaro siamo entrambi affranti, non
era proprio quello che immaginavamo. A me sale un nodo in gola. E’ la mia
vacanza capite e quella doveva essere la mia spiaggia in questi pochi giorni.
Ci sediamo a un bar e guardiamo
cosa dice la guida.. parla di belle spiagge ed infatti questa deserta davanti ai nostri
occhi non è menzionata, la prima in lista dista 20 minuti di taxi. Andiamo.
Quando arriviamo davanti a noi
ecco apparire 700 metri di spiaggia con sabbia vera, e una densità della
popolazione (balneare) inferiore solo a Shangai. Tutto intorno alla spiaggia
che sarà profonda un 5 metri, inizia subito il cemento dello stabilimento: un
bel ristorantone tutto piastrellato ovunque, che si sviluppa a terrazze, senza
nemmeno un filo d’erba solo l’ombra di un cespuglio di rosmarino preso
d’assalto dalle vespe. Temperatura percepita 55 gradi. Sono le 2 del pomeriggio,
siamo il 12 di agosto. E io soffro di pressione bassa, a tratti inizio a vedere
nero sento che il sangue si sta lentamente raccogliendo ai miei piedi, forse non
era solo pressione bassa ma anche voglia di sparire, nascondersi al fresco sotto
terra ma l’impresa sarebbe stata ardua i globuli rossi e anche quelli bianchi
avrebbero dovuto smantellare i vari molteplici getti di cemento, quindi impresa
impossibile. Questo pensiero insieme alla vista di un cartello con la scritta
grande in italiano “gita in barca” mi rialza di un filo la pressione, mio
marito che è più veloce di me ha già i biglietti in mano, e così lo seguo verso
la barca con difficoltà visto che le infradito di plastica ad ogni passo si
attaccano al cemento bollente.
La barca ci porta a Comino in una
insenatura dove insieme ad altre 400 barche, alcune grandi altre meno, dividiamo
un fazzoletto di mare azzurro ascoltando il ritmo della trap a destra, la vaporwave
a sinistra e di qualche altro stile che non conosco più in là a destra e a sinistra,
ma ogni barca è popolata più o meno dalla stessa fauna: giovani tatuati, con
gli occhiali da sole, depilati, che esibiscono lattine di birra come trofei, accoppiati
a giovani ragazze con grossi seni , piccoli costumini che spariscono nei glutei
e sguardi marcati da folte, finte ciglia che fanno ombra alle guance. I giovani
si dimenano mettendo in scena la danza dell’accoppiamento fatta di sguardi,
ammiccamenti con le labbra e colpi di anca che a ritmo di musica chiariscono, se
ce ne fosse bisogno, tutte le loro voglie.
Rimaniamo in acqua tutto il tempo
riemergiamo solo quando il marinaio leva l’ancora e ci fa segno che è ora.
Torniamo in albergo, mangiamo, io
mi avvilisco, mio marito invece cerca e
trova un altro albergo, sembra bello: lo prenota, lo paga.
Il giorno dopo andiamo a vederlo abbiamo appuntamento alle 9.00 Non c’è nessuno. Il posto è tipo apparthotel, ma nessuno ci apre. Chiamiamo. Non rispondono. Nel frattempo dei ragazzi entrano nello stabile e così entriamo anche noi, la reception sembra bella. Alla fine il tipo dell’agenzia ci richiama e ci avvisa che una sua assistente sta arrivando. Dopo mezz’ora arrivano due tipi italiani, su una macchina i cui pezzi stanno in piedi con lo spago. La donna scende ci viene incontro e ci dice che è tanto dispiaciuta e aggiunge “quando avete prenotato, booking ci ha trasmesso la prenotazione in ritardo e noi nel frattempo abbiamo dato questa stanza ad altri che l’hanno già presa in consegna..”, “Ma” continua con uno sguardo più insidioso che affranto “abbiamo un’altra stanza da proporvi molto più bella di questa a 5 minuti da qua”. Mio marito è furioso, io anche ma pur bofonchiando e lamentandoci entrambi andiamo a vedere l’altra offerta. Saliamo in auto, e ci sediamo tra un seggiolino, carte sporche e pezzi di cibo abbandonato. Chiudo la porta. L’uomo alla guida non parla mai , la donna di tanto in tanto sibila che la stanza che stiamo andando a vedere “E’ più bella di quella che avete già pagato credetemi”. Io guardo mio marito e penso a con quanta leggerezza ci siamo affidati ai primi che si sono presentati come i referenti dell’agenzia, che dalla loro auto e presenza era abbastanza evidente non avessero niente a che fare con lo stile dello stabile dal quale ci stavano allontanando. Guardo fuori, sembra di essere indietro di 50 anni in una terra divorata dal cemento, che viene gettato a caso ma ovunque. Il tragitto sembra eterno. Riporto lo sguardo sulle nuche dei due tipi. Un pensiero mi attraversa la mente: e se ci stessero rapendo?
A un tratto l’auto si ferma. Il tipo senza voce, parcheggia in una strada dissestata, ovunque andiamo siamo dentro un cantiere. I tipi ci fanno strada e arriviamo davanti a uno stabile vecchio, almeno lo stile è anni 70, con gli infissi in alluminio marrone e le scale strette piene di polvere come la pianta finta messa nell’angolo del pianerottolo. La tipa, apre la porta. Entriamo. Io guardo davanti a me, le tapparelle aperte a metà lasciano filtrare la luce. La cucina alla mia destra è in legno scuro tipo taverna anni 80 , alcuni piatti giacevano sul ripiano con ragnatele che li univano al rubinetto. A sinistra un divano con fodera a fiori gialli, marroni, arancioni e verdi, davanti un tavolo rotondo con giornali e fogli sparsi sopra, in parte sul muro una vetrinetta, tutto nella stanza è ricoperto da uno strato di polvere nel quale gli archeologi scavando potrebbero ancora trovare, nei numerosi strati, tracce dei vecchi proprietari, che sembrano scomparsi senza preavviso diversi anni fa lasciando tutto così com’era.
Mio marito si infuria, invita i
due personaggi a smetterla di prenderci in giro e nella discussione animata, scopriamo
poi che i due non avevano niente a che fare con l’agenzia dalla quale avevamo
prenotato, ma erano solo amici del proprietario dell’agenzia e che si erano
proposti di risolvergli il problema rifilando a noi un appartamento che con molta
probabilità era di qualche loro parente andato in ferie.
Ci riportano dove ci avevano
preso. E salutandoli li avvisiamo che avremmo fatto continuare la discussione al
nostro avvocato.
Per fortuna in tutto questo abbiamo
un corso di inglese da fare così andiamo a lezione. La scuola è ok.
L’insegnante è brava, gli studenti sono molto giovani e hanno tutti l’area di
essere arrivati direttamente dalla serata in discoteca.
Finita la lezione andiamo a
visitare il paese. Mi guardo intorno e continuo a pensare ma dove sono finita?
Questo posto è una giungla di cemento. Sembra un concentrato di anni 70 elevato
alla novantesima potenza. Qui costruiscono palazzi su palazzi, tutti attaccati,
altissimi, che pur nuovi son già vecchi. Le costruzioni arrivano sino al mare,
là dove la spiaggia non è cementata, le costruzioni si immergono direttamente nell’acqua.
Non ci sono giardinetti, né piccole aiuole, né fontane, l’unica che ho visto
era senza acqua e piena di immondizia che col passare dei giorni aumentava. I
pochi alberi che si vedono sopravvivono a stento ai margini della strada e sono
ricoperti di smog e polvere. Nel paesaggio urbano specie la sera si notano diversi
casinò e scopro poi che Malta è la patria delle società di gaming, qui sono
numerosissime grazie alle agevolazioni fiscali concesse dal governo maltese. L’atmosfera
che si respira è infatti quella di un luogo malavitoso, dove regnano bruttezza
e disonestà.
La sera decidiamo di andare a La Valletta il taxi ci lascia in piazza del Tritone anche questa totalmente cementata. Lasciata la piazza alle nostre spalle entriamo in città, non è male anche se un po’ sporca. A cena accanto al nostro tavolo ci sono degli autoctoni che parlano italiano, non ricordo come ma iniziamo a parlare e io chiedo come mai non ci siano alberi e come mai sia costruito tutto in modo così fitto e la persona più vicina a me ha iniziato a raccontarmi, parlando a bassa voce, che l’isola è una delle più cementificate al mondo, l’edilizia è senza freni perché in mano a gente senza scrupoli, addirittura si può costruire su edifici vecchi rialzando i piani, al che io penso chissà se poi strutture progettate per due piani siano in grado di sorreggerne altri, ma non lo dico e continuo ad ascoltare, la persona dice anche che l’isola è comandata da diverse mafie e che polizia e magistratura sono corrotte. Insomma ci dice che Malta non è proprio un bel posticino. Solo durante questa cena mi viene in mente il caso di Dafne Caruana Galizia e mi do della stupida per non essermelo ricordato prima. Dafne infatti è la giornalista maltese che con il suo blog era il punto di riferimento per tutti i giornalisti dell’isola, era perché è stata uccisa da un’auto bomba nel 2017. Dafne nel corso del tempo aveva accusato: la magistratura maltese, fu la prima a dare ai giornali la notizia del coinvolgimento dei politici governativi KonradMizzi e KeithSchembri nei PanamaPapers, e dichiarò che la Egrant, un’altra società di Panama, era di proprietà di Michelle Muscat, moglie del primo ministro maltese JosephMuscat. Pochi mesi dopo queste dichiarazioni Dafne è stata uccisa .
La cena finisce e dopo pochi
giorni di varie vicissitudini spiacevoli anche la vacanza per fortuna finisce.
A casa da questo viaggio ci siamo
portati solo una certezza noi a Malta non ci torneremo mai più. Io di certo non
lo farò.
Dalla finestra di casa mia adesso
mi godo il verde e la grande quantità di alberi che circondano la mia casa e
che ringrazio uno a uno perché ho sentito sulla mia pelle quella sensazione angosciante
di essere circondata da un mostro grigio senza volto che divora e distrugge
bellezza e armonia per lasciare i propri escrementi grazie ai quali vivono molti
parassiti ossequiosi e ubbidienti, cimici puzzolenti che minimizzano e
ridicolizzano le proteste della gente, la cui terra e vita sono imbruttite
dalla loro presenza.
Con questo pensiero mi siedo al pc e faccio qualche ricerca, vorrei capire qualcosa in più di una terra così devastata e così mi sono imbattuta in molti articoli che spiegano bene la situazione, e poi sono finita anche nella pagina facebook del figlio di Dafne Caruana Galizia, Matthew, che lavora per The International Consortium of Investigative Journalists. E guarda caso aveva da pochi minuti pubblicato un post con il quale riferendosi ai vari movimenti che invitano le autorità maltesi a rispettare l’ambiente e l’estetica delle costruzioni, in inglese ha scritto:
(Questi
movimenti) “stanno dimenticando che il governo di Malta è oggi una
organizzazione criminale o è al servizio delle più grandi organizzazioni
criminali. […]
E ancora
Chi sono le
persone che realizzano profitti dal piano di governo che spende 0,7 bilioni di
euro pavimentando l’intera isola? Diamo un occhio ai membri del consorzio “pre
designato” a vincere la gara d’appalto: James
Fenech, un trafficante d’armi in affari con Erik Prince (così che mentre le ONG di ricerca e soccorso dei rifugiati
sono bandite dalle acque maltesi da Joseph
Muscat, le persone che traggono
profitto dalle stesse guerre che creano rifugiati per il governo maltese vanno invece
bene), Joseph Portelli, uno sviluppatore che gestisce un impianto di
calcestruzzo illegale, facendo da prestanome a individui ancora sconosciuti. E
infine Kurt Buttigieg, candidato per
il Partito Laburista… ”.
Chiudo la pagina di Matthew, alzo
lo sguardo verso la finestra.
Malta è una piccola isola che
poteva essere un gioiello stupendo e invece, è stata sfregiata e colpita da un
brutto cancro, che se prende forza, dal cuore del mediterraneo può estendersi in
tutta Europa dove peraltro ha già molte basi operative. L’indifferenza e l’ignavia,
soprattutto della politica, la pagheremo tutti.
Faccia a terra l’ho scritto io, quindi dargli una lettura sinestesica cercate di capirmi è difficile, è troppo mio e i miei sensi si sono già distesi in queste file di parole per occupare ciascuno insieme agli altri il proprio spazio che è lo stesso di tutti gli altri…
Ad ogni modo ci provo … seguitemi 😉
Ogni riga di questo racconto diffonde l’odore fresco, vellutato e confuso dell’infanzia che si scontra con i toni acri e ruvidi della vita adulta. Nelle parole ci sono i colori della rabbia e del dolore: violaceo, bluastro e verde acido opaco, che senza mischiarsi si alternano come nelle chiazze di benzina lasciate sull’asfalto da automobili mal curate, e pronte a prendere fuoco da un momento all’altro. Sono chiazze di colori netti, che se fossero sulla pelle sarebbero proprio gli stessi di quei lividi che faticano a sparire e anche quando scompaiono continui a vederli nel cuore e a sentirli ella mente dove nutrono il disprezzo anche per te stesso.
I suoni di questo racconto sono rumori sordi che odorano di terra, letame, e guerra, ma anche di latte e luce che arriva all’improvviso aprendoti le narici per mostrarti ciò che non avevi mai visto.
Consiglio di lettura:
ne ho due:
Il racconto è esaltato nella sua degustazione dall’ascolto di “Flow my tears” di John Dowland che va accompagnato da una tazza di latte caldo con miele e una goccia di rum…
Si può però anche mettere in risalto una parte del racconto giocando sui contrasti così consiglierei una melodia d’annata decisamente più recente optando per Fall di Eminem da accompagnare rigorosamente con l’odore del gelsomino da far diffondere nell’aria senza limiti.
Il motto: ogni cosa lascia un segno…
FACCIA A TERRA
Un atrio in cemento spazioso. Un muro cieco che separava la casa da quella adiacente. Dopo la morte dei genitori le proprietà, quando ci sono, si dividono con muri che diventano coltelli infilati nella terra. A destra una tettoia alta e ampia per il trattore e gli attrezzi che guardava la casa grigia coi battenti verdi scoloriti dal sole. Per arrivarci con l’auto si entrava in una stradina limitata da due muretti scalcinati alti più di me.
Andavamo spesso a casa degli zii. Avevano gli animali e le cose dell’orto. Io amavo il latte fresco, mia madre ci faceva la panna che mettevamo sul caffè. Lo zio era piccolo, magro e anziano. I pantaloni legati con una cintura che faceva quasi due giri intorno alla sua vita. La canottiera bianca, le braccia magre con le vene gonfie, i muscoli vivi di un diciottenne. Camminava avanti e indietro, andava nella tettoia prendeva la forca, attraversava il cortile. Il rumore degli zoccoli che battevano e strisciano sul cemento segnavano la traiettoria. Quando entrava nella stalla tornava il silenzio, il fieno copriva il pavimento e il rumore dei passi. Ma non quelli della voce e del bastone.
Impugnava la forca e iniziava il suo rituale, metteva la paglia, prendendola dal mucchio all’ingresso; ogni movimento era il pezzo di una sequenza, rapida, chiara, automatica, come il respiro. Finito, posava la forca sul muro, prendeva lo sgabello e il secchio si posizionava sotto la vacca e le urlava di stare ferma. Era l’unica cosa che capivo in quello strano dialetto.
In genere seguivo mio padre, entravamo nella stalla mentre la luce restava sull’uscio. L’odore mi pungeva nel naso. Osservavo lo zio seduto sullo sgabello che mungeva quelle strane mammelle grosse, lunghe e tante. Le impugnava a intermittenza, tirandole giù e su, velocemente, lasciando uscire il latte in una traiettoria precisa che andava a finire direttamente nel secchio. Capitava a volte che la bestia fosse irrequieta e lui allora le urlava dietro qualcosa, a volte usava anche il bastone, ma sempre le urlava qualcosa che non capivo ma sembrava fare più male del bastone. Quando la bestia si calmava l’accarezzava e taceva.
Con la bottiglia piena di latte e calda tornavamo a casa.
Un giorno arrivammo nel pomeriggio. Mio padre ed io uscimmo dall’auto; lo zio sbattette la porta di casa e già urlava. Metà imprecazioni rimasero dentro casa addosso al figlio, voleva la moto, credo. Ricordo che mangiava merendine senza ritegno e guardava sempre la tv. Disprezzava il padre perché faceva il contadino, toccava la terra, il letame e puzzava di campagna. Mentre lui sognava di diventare Lupin o forse Umberto Smaila quello che in Tv era circondato da donne mezze nude. Si trascinava per casa, lento e silenzioso come un ladro e, appena poteva, ne usciva. Quel giorno lo vidi attraversare il cortile, non voleva farsi vedere ma io lo vidi e lui con lo sguardo mi lanciò un avvertimento: “Tu non mi hai visto”. Sapeva che non avrei parlato, perché una volta lo feci, e lui mi scaraventò a terra ma mentre io non mi feci niente, lui si inciampò sui suoi passi e finì col muso sul ferro del corrimano. Gli sanguinò il naso tutto il giorno. Da quella volta mi stette lontano.
Di norma tornava giusto per cena, aveva sempre fame, trovava il posto apparecchiato e la madre ad aspettarlo come fosse un gattino randagio. Il padre quasi sempre in piedi, non riusciva proprio a stare fermo nemmeno a tavola. Prendeva e toglieva le cose dal frigo, dalla dispensa dalla tavola. Si sedeva, appoggiava il formaggio sul tagliere, lo tagliava stando attento allo spreco, prendeva il pane e raccoglieva le scagliette, il vino era nel bicchiere, la bottiglia già nella dispensa. Lo ricordo bene, perché quando ci fermavamo a cena ci dava un pezzo di pane, salame e formaggio, due dita di vino per mio padre, acqua e vino per me. Non mi guardava mai negli occhi. Ricordo anche che mio padre di tanto in tanto l’aiutava nei campi, e io rimanevo in giro a giocare con le foglie, i sassi, la terra e osservavo cosa facevano. Se mio padre sbagliava qualcosa, a tagliare la legna o non raccoglieva tutto come gli aveva detto lui, sbatteva l’attrezzo che aveva in mano, dava un calcio alla terra e urlava. Non credeva in Dio eppure lo bestemmiava come fosse comunque la causa di tutti i mali. Era stato partigiano e aveva fatto la guerra. Aveva conosciuto la paura, la fame, l’odio, la cattiveria e gli erano rimaste attaccate addosso. Poi, tornò e decise di ricominciare la sua vita dalla terra, seminandovi cosa era rimasto di lui. I campi, le bestie, il raccolto, il letame tutto aveva un ordine, un uso, un tempo che lui conosceva bene e non ammetteva che gli altri ignorassero. Quell’uomo mi spaventava anche se avevo notato che quando urlava non mi guardava mai, io ne avevo paura e lui lo sapeva. Ero una bambina piccola, coi codini, con due occhi grandi che lo seguivano ovunque. Mi incuriosiva. Come tutte le cose che si temono, mi attraeva. E poi lui, la mia paura la conosceva e vedeva. Il figlio invece non aveva paura. Il figlio se ne fregava. Quel padre era troppo vecchio, troppo contadino, puzzava, razionava cibo e soldi. Quel padre non sapeva godersi la vita. Lui invece era giovane, forte e bello, almeno così gli ripeteva la madre ogni giorno guardando soddisfatta la carne della sua carne. E di carne lei ne aveva troppa.
Quel giorno comunque il figlio non tornò per cena. Mio padre andò a cercarlo e mi lasciò a casa dagli zii. Seduta su una sedia in un angolo con la paura di respirare troppo forte. Poi mi addormentai. Mi svegliarono le urla di mia zia, implorava di non far male al figlio che mio padre aveva recuperato in un bar dopo tre ore di ricerche. Mio zio aveva uno sguardo infuocato, credo di disprezzo e la cintura nella mano. Camminava avanti e indietro sbattendo gli zoccoli. Mia zia gli si metteva davanti cerando di far sgattaiolare il figlio in camera, ma prima di riuscirci si beccò due frustate anche lei, alla fine il figlio riuscì a infilarsi nella porta che portava al piano superiore, subito chiusa dal corpo della madre.
Quella notte non riuscì a dormire, quella cintura usata come un arma non l’avevo mai vista.
Poco tempo dopo accadde un altro fatto. Raccoglievo l’uva e avevo le mani indolenzite dalle forbici. Riempivo il mio secchio e lo svuotavo in quello più grande vicino al trattore. Eravamo nella vigna e mi stavo divertendo. Potevo anche salire sul trattore fermo e guardare tutto dall’alto e anche riempirmi la bocca di uva ma stando molto attenta a non farmi vedere dallo zio, temevo mi sgridasse perché con l’uva ci doveva fare il vino. Vicino a mezzogiorno, ricordo che tenevo il mio secchio con due mani mentre andavo verso il trattore per svuotarlo, incrociai lo zio alla fine del filare, abbassai la testa ma non prima di vedere il suo sguardo trasparente posarsi nel mio, vidi la sua mano allungarsi verso il mio viso; strinsi subito gli occhi mi aspettavo uno schiaffo che non arrivò e rimasi stupita di sentire invece un tocco caldo e lieve segnare come un pennello la mia guancia, e il suono della sua voce declinare in dialetto il mio nome, mentre con l’altra mano mi toglieva il peso del secchio e anche quello della paura.
Mio zio ricordo morì pochi anni dopo.
Mi dissero che la rabbia gli mangiò il fegato. Una settimana dopo il funerale andai con mio padre in ospedale, lo aveva chiamato la zia perché avevano ricoverato il figlio. Questa volta lo avevano trovato nella stazione del paese vicino, disteso con la faccia a terra nel sottopassaggio, i denti rotti, il sangue che usciva da una vena del braccio e un ematoma sul viso che lo deformava. Frequentava gente come lui, persa nell’illusione di una vita senza salite e senza sudore. Ricordo la madre seduta su una sedia verde chiaro dalla quale straripavano le sue cosce, mio padre in piedi la guardava e iniziarono a parlare dello zio.
-“Aveva tutte le ragioni del mondo per urlare e imprecare. Ne aveva passate tante”.
-“Si la guerra…” disse mio padre quasi annoiato.
-“Forse quella è stata il meno”.
– “Di che parli allora?”.
La zia si fissava le mani, gonfie e ruvide e disse.
“Era rimasto orfano a 4 anni con il fratello di due anni più grande. Del fratello non ha saputo più niente, mentre lui fu preso da una famiglia mezza imparentata con la sua. Ma lo tenevano come una bestia. La sua camera da letto era lo zerbino della porta di ingresso. Doveva lavorare per loro e mangiare il giusto per non svenire. D’inverno mentre gli altri stavano dentro al caldo a magiare e bere lui stava fuori e aveva imparato a proteggersi dal freddo muovendosi come un furetto.
Fino ai 15 anni circa ha vissuto così. Poi se ne è andato, ha trovato lavoro in un paese vicino come garzone tutto fare. A 18 anni è partito per la guerra. Ma più di 10 anni vissuti come un animale non glieli ha più tolti nessuno. Non ha mai dimenticato quei cani che l’hanno lasciato a dormire sull’uscio di casa quando aveva 4 anni.
Ho raccontato questa storia a Claudio prima che il padre morisse, speravo lo aiutasse a cambiare o solo a comprenderlo. Ma era come se gli stessi dettando la lista della spesa che lui nemmeno si appuntava. Forse gliel’ho raccontata troppo tardi o troppo male”.
Mio padre rimase fermo in piedi a fissarla. Dalla porta spalancata a fianco entrò poco dopo il giovane medico di turno, facendo rimbalzare sui vetri il rumore dei suoi zoccoli.
-“E’ la madre di Claudio Fantin?”
– “Si”.
“Signora, mi dispiace ma suo figlio è molto grave. E’ stato picchiato molto duramente, ha il fegato spappolato e un ematoma in testa molto esteso. Potrebbe non farcela”. Il medico allungò una mano a mia zia e continuò: “Nella tasca dei pantaloni gli hanno trovato solo questo foglietto”.
Lei lo prese, era piegato in quattro e lo aprì. Era il foglietto di un block notes, ingiallito dal tempo e macchiato d’unto.
C’era scritto:
“A 4 anni ha perso i genitori. Fino a 15 ha dormito su uno zerbino come una bestia. A 18 è partito per la guerra. A 50 anni gli sono nato io”.
Ivo era in coda, alcune auto lo precedevano e lui aveva fretta, aveva i colloqui coi genitori. Tamburellava l’indice sul volante nell’attesa che la lentezza altrui prendesse varie direzioni, pensava ai ragazzi, al loro rendimento: era sempre peggio, ogni anno peggio e cercava una soluzione, un modo per svegliare in loro il valore del sapere, era convinto fosse qualcosa di innato, ma forse sbagliava e non se ne dava pace.
Forse Lia aveva ragione. Forse la sua scelta era quella giusta.
Lo sguardo si spostò a destra, nello specchietto e per terra, ai piedi del marciapiede, vide un micio accovacciato, pensò, che strano, non ha la posa di un gatto morto sembra stia dormendo; lo sguardo rimase immobile, l’auto lentamente procedeva e lui si ripeteva che quella posa non era da gatto morto.
Mise la freccia e accostò più che poté. Un clacson iniziò a suonare nervosamente, il solito che ha fretta di andare a fare in culo, pensò mentre aveva già i piedi sull’asfalto. Si diresse verso la bestiola, si chinò, la chiamò schioccando le labbra. Il musetto tumefatto si alzò appena e iniziò a emettere un miagolio sottile, una straziante richiesta d’aiuto proveniva da quella creatura già ricoperta da larve e parassiti mentre un occhio penzolava sporco di sangue e asfalto. Era viva. “Dio mio, come sei ridotta, tieni duro piccola”; Ivo prese il plaid nel baule, vi avvolse la bestiola l’adagiò sul sedile è partì alla ricerca di un veterinario.
Ivo arrivò in ritardo. Aprì di scatto la porta per entrare in sala riunioni e gli si fece incontro una donna strizzata nei jeans.
– Professor Vinci, è mezz’ora che aspetto di parlare con lei…- Tratteneva ogni sillaba tra le labbra nuove di botox.
– Eccomi qui tutto per lei.
-Sono la mamma di Matteo.
Ivo fece un sospiro profondo: -Signora, suo figlio mi preoccupa, è sempre distratto, parla in continuazione, ha sempre un sacco di cose da comunicare a tutti fuorché a me quando lo interrogo.
-Matteo mi dice che parla di cose di scuola, quindi?
Ecco un altro avvocato che invoca l’innocenza del cliente pluripregiudicato, pensò Ivo.
-Dice così? Io non ne sarei così sicuro. A meno che, anche lei, non pensi che le ghiandole mammarie della vicina di banco siano un argomento scolastico…
I colloqui si trascinarono per un paio d’ore, poi Ivo si rimise in auto direzione casa quando il telefono squillò, finalmente Lia! pensò.
“Ciao Ivo! Come stai? E’ tutto pronto sai, domani I fly away!”. Era felice, aveva trovato lavoro a Londra, “una cosa incredibile” sottolineava lei quando raccontava la storia, e rideva sempre sulla parola incredibile, in Italia del resto non le era mai capitato. Aveva mandato un curriculum, solo uno, quasi per scherzo, e le avevano risposto. La chiamarono, le fecero il colloquio e, ancora più incredibile, l’assunsero.
“Ma non sai che bello è sentirti così felice!” le disse Ivo.
“Si, lo sono e lo sarò di più quando anche tu ti trasferirai a Londra. Manda qualche curriculum, lì li leggono, che fai in questo paese senza speranze!”.
Ivo non voleva affrontare ancora quel discorso, ne avevano parlato già mille volte, lui non se la sentiva, i genitori erano anziani, il padre malato, troppo difficile fregarsene e andar via, anzi impossibile.
Così, spostò la conversazione raccontandole della bestiola: “Sai che ho trovato una gatta mezza morta per strada?”.
Lia amava i gatti e lui sapeva che così l’avrebbe distratta.
“L’hai salvata vero? L’hai portata da un veterinario vero? Hai visto lo stronzo che l’ha investita vero?”.
“Calmati!” la interruppe Ivo “Sono anche arrivato tardi ai colloqui per quella micia. Il veterinario dice che è messa male, ha perso un occhio e anche con l’altro pare non veda bene, era incinta, ha perso i cuccioli ma sopravvivrà; non so come, dovevi vederla!”.
“Poverina…”, sussurrò Lia dolcemente, “Ma che fai? La porti in un gattile? A chi la dai?”.
Ivo non c’aveva ancora pensato e meravigliandosi lui stesso delle parole che gli uscirono dalla bocca disse di getto: “Provo a tenerla, non sarà facile visto come l’hanno ridotta ma ci voglio provare. Devo ancora darle un nome, qualche suggerimento?”.
Un attimo di silenzio e poi Lia col suo tono impertinente disse: “Chiamala Italia!” e rise.