Ore davanti ad un asse da stiro

che probabilmente saprei usare

con più agilità come tavola da surf

se lo stesso tempo l’avessi passato

ad allenarmi sulle onde, anziché passarlo a fissare la mia mano,

spostare il ferro, e le pieghe,

da un lato,

all’altro.

E se dicessi che amo l’organo riproduttivo delle angiosperme?
lo dico!
E se dicessi che ne amo
sia i gametofiti maschili
tanto quanto quelli femminili, se non più?
Ebbene lo dico!
Perché e’ così.
E lo amo anche se è finto,
se non altro perché mi fa spezzare
il grigiore…di un cappotto.

Il fiore e il cappotto

di Alberto Garlini

dalla mia libreria 😉

E’ l’ultimo libro che ho letto e ho realizzato un servizio video per Il13 che trovate qui .

Il testo del servizio lo riporto di seguito, ma con il video è più carino 😉

La foto del libro è estratta dalla mia libreria, accanto al fico ci sono alcuni degli altri romanzi dell’autore.. Ecco ora vi lascio leggere 🙂

“Il fico lo avevo trovato lì. Nessuna fatica per guadagnarlo. Lo vidi di notte, avvolto nel misterioso fenomeno della bruma, così raro nelle terre di Palestina”.

Questo l’incipit dell’ultimo romanzo di Alberto Garlini, “Il Fico di Betania”, che va ad arricchire il bosco degli scrittori, progetto editoriale di Aboca in cui gli alberi sono l’espediente per raccontare l’uomo e il mondo con la sensibilità di alcuni tra gli scrittori italiani più talentuosi.

Garlini con questo romanzo trasporta il lettore in Palestina ai tempi di Gesù Cristo. Il personaggio è però Simone figlio di Taddeo un uomo con un passato violento, nato a Gerusalemme “sotto l’ombra del tempio” un’ombra che come la notte e la misteriosa bruma dell’incipit, sono simboli che Garlini usa per creare più livelli di lettura e una profondità assoluta che conduce chi legge oltre il giudizio. E anche oltre il tempo perché la Palestina di allora può essere in realtà qualsiasi luogo del presente in cui ci sia un uomo che fa i conti con se stesso e i dubbi della propria esistenza.

La storia trae spunto dall’episodio narrato nei vangeli di Marco e Matteo in cui Gesù di Nazareth una notte, maledì un fico perché non aveva frutti da offrigli. Un gesto inspiegabile che stride violentemente con la natura divina del Cristo ma che Garlini invece rilegge, con il suo stile inconfondibile in cui sacro e profano sono incarnati uno nell’altro mostrando a chi legge un dio che non solo si è fatto uomo, ma in un attimo di fragilità, è diventato anche umano.

Le pagine del romanzo scorrono seguendo il racconto in prima persona di Simone che da affiliato alla setta degli zeloti confessa che uccideva solo per sfidare dio, poi la svolta: cambia vita, paese, nome sino a che una notte trova davanti a sé il fico e ricomincia una nuova vita.

Garlini parola dopo parola frantuma le strutture mentali umane e gli schieramenti creati dai giudizi, per illuminare ciò che resta: la sacralità dell’uomo e ne “Il fico di Betania” anche la fragilità di un dio.

Ps. Dello stesso autore in questo sito c’è anche la recensione SINESTESICA di un altro suo romanzo, un giallo, Il fratello unico, la trovate qui!!

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 72271198_2713020878728512_8236983778866626560_n.jpg
Scarpe di Marianna

Dio mio: tre ore in piedi coi tacchi! Appena tornata a casa le scarpe le ho inchiodate al muro, tutte e due.
Le userò come acquasantiere per lavare i peccati del mondo.
Primo fra tutti “il buffet senza sedie”. Seguito da “il Buffet senza superfici d’appoggio”.

Perché? Io alle 8 di sera quasi sempre muoio di fame e in genere anche di sete specie se c’è del buon vino e con tutto l’impegno che ci metto per essere una persona migliore non potrò mai, ma proprio mai, essere la dea Kali’, e non mi si può chiedere quindi di scegliere se bere o mangiare! E se una mano è impegnata a tenere in equilibrio il piatto mentre l’altra con destrezza infilza a forchettate il cibo nel piatto le due mani di cui sono dotata me le sono giocate. E come bevo? Nei casi super fortunati, quelli in cui riesco a trovare un cm per appoggiarci il bicchiere, dopo un nano secondo appaiono almeno altri 3 super fortunati, che piazzano i loro bicchieri nello stesso posto in equilibrio con il mio come quell’arte che si fa con le pietre e …non so più qual è il mio!

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 71965774_2713020932061840_6698801414296043520_n.jpg
Scarpa o acquasantiera?

E tornare a gettarsi nella folla per procacciarmi un altro bicchiere di vino è follia perché vorrebbe dire mollare il piatto e dove poi? …Una volta, lo ricordo come fosse ieri, una tremenda sete mi assali’ e così lasciai il piatto quasi pieno, avevo appena sbeccottato qua e là, lo appoggiai in un anfratto che credevo sicuro, ebbene quando tornai nel luogo dell’abbandono, uno stava mangiando nel mio piatto, mi guardo’ e mi disse: “non potevo mica mollare il bicchiere”.

Nel nome del PAdre e della MAdre


Malika Favre artista

L’alfabeto del Kamasutra di Malika Favre

Ci sono lettere che fanno l’amore e le parole a volte possono essere delle vere orge. Va be’ forse esagero, ma forse no ;-), ad ogni modo, vi garantisco che almeno due lettere in particolare, fanno davvero l’amore, a volte è solo sesso, ma sempre lo fanno per riprodursi. Vi spiego come.

La parola padre deriva dalla radice sanscrita , alla quale sono riconosciuti due significati: il primo ha a che fare con la purificazione tramite l’acqua, (bere per purificarsi), il secondo, invece, si riferisce all’effetto della purificazione, che è quello di preservare e proteggere. Bere acqua, lo sappiamo tutti, fa benissimo, anche perché ne siamo fatti a livello molecolare del 90%. Ma c’è anche un altro significato. Se pensiamo al sesso e alla riproduzione, il maschio produce ed emette sperma che il corpo della femmina accoglie (beve?!), nel ventre, e questo gesto permette e riassume il senso di quel “preservare” in riferimento alla conservazione della specie. Se consultiamo un qualunque dizionario, infatti come primo significato alla voce padre, leggiamo: “Uomo che ha generato uno o più figli”. Ma l’acqua è innanzitutto un simbolo femminile, del resto anche la femmina produce liquido organico nell’atto sessuale e il feto si sviluppa dentro il ventre materno, nel  liquido amniotico. Ci torneremo su questo punto. Ora consideriamo solo che anche madre è una parola che deriva dal sanscrito, la cui radice, mā, significa misurare, preparare e si riferisce all’azione formatrice del corpo del bambino.
Arriviamo adesso al punto. Consideriamo le due lettere P ed M, e provate a pronunciarle,…fatto? Cosa notate? Seguitemi. La P è una consonante sorda occlusiva, “essa viene generata mediante il blocco completo del flusso d’aria a livello della bocca, della faringe o della glottide, e il seguente rilascio rapido di questo blocco”, senza mettere in vibrazione alcun organo. In altre parole l’aria viene trattenuta ed espulsa, dalla bocca, proprio come quando si sputa.
La M, invece è una consonante sonora, nasale bilabiale; il suono viene articolato chiudendo le labbra e tenendole chiuse fino alla formazione della lettera, e le corde vocali vibrano durante l’articolazione del suono. Avete notato niente? La P si comporta come il maschio nell’atto sessuale e la M come la femmina. La prima emette, la seconda trattiene, e forma, trattenendo. Infatti la vibrazione, messa in moto dall’articolazione della M è la modulazione necessaria alla creazione… Se questo è un caso!

20170318_105943Cosa sono quindi le lettere? E cosa si nasconde nel linguaggio?
“Le lettere incise sulla pietra e poi nei libri, conservano nel loro cuore il segreto del loro potere”.
Ma non mi fermo qui le analisi continueranno… E’ restato in sospeso il discorso sull’acqua.

Marianna Maior

Marianna Maior (omaggio a Chaplin)

Non ero preparata lo ammetto, non ero preparata a incontrare un’arte così potente e il genio che le ha dato vita. E sapete cosa vi dico che ormai questa parola “genio” è talmente abusata che poi quando incontri un vero genio come Charlie Chaplin, la parola si riempie di tutto il suo senso e ti stordisce e, forse offesa, ti schiaffeggia dimostrandoti chi è davvero un genio.

Cosa mi è successo? Ho visto per la prima volta The kid (Il monello in italiano ma la traduzione non mi piace) di Charlie Chaplin. E’ stata la mia prima volta e non ero preparata. Sì avevo visto tanti trailers qui e lì, e li avevo anche usati per il montaggio di alcuni servizi dedicati al cinema muto, avevo visto anche altri suoi film “Il grande dittatore” e “Charlot”, sempre a pezzetti un po’ qui un po’ lì. E a dire il vero ho anche letto molto su Chaplin, tutta la sua storia, la vita, le recensioni, etc. Ma mai avevo visto il film intero e tanto meno seduta a teatro con un’orchestra che suonava dal vivo. Mai.

Jackie Coogan e Charlie Chaplin

Ebbene è stato travolgente, trascinante, prorompente: un film muto mi ha fatto sentire con una chiarezza pazzesca, tantissime emozioni definite da così tante sfumature che se non l’avessi provato non ci crederei.

Seduta in seconda galleria al teatro Verdi di Pordenone la storia di questo bambino mi scorreva davanti e ogni sguardo, ogni gesto, ogni espressione del volto del piccolo John, di Chaplin e degli altri attori mi sono penetrati dentro accompagnati dalla musica perfetta dell’orchestra San Marco e una volta entrati hanno scatenato un turbinio, un subbuglio, un frastuono pazzesco di sentimenti.

E mi rendo conto che faccio fatica a trovare le parole per descrivervi quello che ho provato, mi è difficile innanzitutto perché mi sono accorta che gli aggettivi che uso sono annacquati dall’abitudine di usarli e da un tipo di linguaggio che dice sempre meno e appiattisce tutto: intenso, bellissimo, divertente, commovente, particolare, importante, li uso troppo spesso soprattutto per velocità, sono già lì, i primi sulla punta della lingua sempre pronti ad esibirsi che non si sbaglia mai, esagerando in bene nessuno si offende. E adesso per questo vero, grande, raro, stupefacente capolavoro non trovo le parole giuste.

Come dirvelo, The kid, fotogramma dopo fotogramma mi è entrato dentro ha oltrepassato il pericardio ha scovato il misterioso impulso che fa pulsare il cuore e lo ha rianimato e io ho iniziato a sentire scorrermi la vita nelle vene più ricca e intensa. E ha fatto tutto senza dire una parola. E senza dire una parola adesso mi sta spingendo a cercare le parole giuste per descriverlo e mi sta facendo sentire la debolezza del mio linguaggio.

Charlie Chaplin – che ha scritto, diretto, prodotto e creato la musica che accompagna questo film, per la cui storia si è ispirato direttamente alla sua vita- la paura dell’orfanotrofio, dell’abbandono, la miseria, le meschinità della vita lui le ha vissute e le ha raccontate facendomele provare: io ho sentito freddo nella sua camera mentre indugiava a letto con addosso coperte bucate e lise, ho sentito il dolore straziante che si è poi trasformato in rabbia, terrore e violenza quando gli volevano portare via il bambino, ma ho anche riso quando seduceva la moglie del poliziotto e ho riso anche quando il piccolo rompeva le finestre coi sassi e non erano marachelle (ecco perché monello non mi piace) ma solo strategie di sopravvivenza.

Ho riso e pianto tanto.

Chaplin con un film muto è riuscito a farmi sentire (e dico sentire non vedere) la miseria delle periferie abbandonate a se stesse, la violenza e la prepotenza che le abita ma mi ha anche fatto sentire l’amore intenso e appassionato di un padre (suo malgrado) e di un bimbo che gli chiede solo amore e lo ricambia con una tenerezza che risuona in ogni bacio in ogni sguardo, e poi c’è anche la forza di una donna che sbaglia, si rialza, paga e poi…. e poi dovete andare al cinema, a teatro ovunque daranno questo film, andate, andate a vederlo.

Jackie Coogan interpreta “The Kid” di Charlie Chaplin

E per dirvela proprio tutta alla fine della proiezione con Tomaso abbiamo fatto a caldo uno special, The kid infatti è stato proiettato per la prima volta a Le giornate del cinema muto di Pordenone e insomma era un evento, ma io ero stordita da tutto questo frastuono che mi è esploso dentro, col viso struccato dalle lacrime e vi confesso che fare la trasmissione non mi è stato proprio facile e insomma la vedrete e spero capirete.

Marianna Maior

Cosa vedeva Jean Sibelius quando suonava o ascoltava la musica? E Kandinsky davvero sentiva i suoni dei colori? Quali sono i loro racconti? In questo video alcune risposte, mentre per i curiosi nel libro tutte le risposte 😉

marianna maior: si ricresce!

Autunno inverno 2019-2020 va di moda la ricrescita! Ovvero la base resta scura e si lascia visibile lo stacco dal resto della capigliatura, più chiara. Quanto chiara? TQTB! (Tanto quanto ti basta). La forza di questa moda te lo dico subito è la base che resta tua. Ecco si ricresce partendo da sé: basta menzogne e finte bionde, rosse e more. Voglio sentirle le dichiarazioni a microfono acceso: “Sono nata mora lo ammetto, a farmi bionda è stata la vita”. Su, ammettiamolo, è (e) per piacere! Ma al di là della tonalità concentriamoci sulla forza di questa nuova vogue . Io di crescere, super mannaggia, ho smesso a 14 anni, maledicendo i miei antenati troppo bassi per farmi svettare comoda sopra la rete 2,24 di pallavolo. Quanti scalini ho dovuto fare per migliorare l’elevazione! E salta uno scalino alla volta prima con un piede e poi con l’altro e così per tutta la scalinata del palazzetto, e poi due scalini alla volta, poi tre, poi 4 (se e quando ci arrivavo) ..e  poi ricomincia e rifai tutto a due piedi. E perché? Tutto perché non crescevo più.

I mici controllano che non io non bari... ma complice la distrazione di Mimì nessuno si è accorto che ero in punta di piedi :-)
Marianna Maior: I mici controllano che io non bari… 😉 che si siano accorti che ero in punta di piedi? 🙂

Ebbene da quest’anno si ricomincia e si ri- cresce e non vedo l’ora! Yeppa!!

Ho già qualche idea! Sì perché voglio proprio ri-crescere di statura soprattutto intellettuale, ma anche musicale e imparare a rappare come Eminem per cantarle a tutti, o forse sarebbe meglio osare con la trap perché in fondo non ha torto quello che ride in faccia alla telecamera coi suoi denti d’oro e gira l’italia riempiendo i locali e i suoi conti correnti e con il suo tran tran sbeffeggia in rima di chi lo critica e basta. Ma in realtà e in fondo io sono più stile Zaz e riempio liste di desideri e di Je veux anche un po’ naif perché alla fine Je veux solo d’l’amour, d’la joie, de la bonne humeur… e découvrir ma liberté . E a proposito di libertà vorrei tanto anche  ri-crescere il peso delle notizie dando quelle belle ma anche quelle scomode e serie e infine quelle che servono a far sapere quanto lavoro c’è dietro un’associazione, un progetto o solo un sogno. E poi ancora vorrei ri-crescere di ….qualcuno mi sta suggerendo di tette… eh no! di tette no, ormai mi sono abituata, e poi sono invadenti, quante invasioni ho visto fischiate sotto rete! Non c’è niente da fare, le tette ti sbilanciano ed è fatta ti trovi nelle braccia dell’avversario, il punto è suo e si ricomincia sempre in difesa.

Uff.. ho divagato.. mi son persa, ah sì  ..

Dove mi ero fermata voglio ri-crescere che poi è un ri-creare partendo dalle mie radici, che son castana ma anche un po’ castagna il che mi dà un’aria più autunnale, piena di riflessi ramati e immensamente riamati dopo aver ceduto, confesso, una sola volta però! alla tentazione di quel frivolo seduttore già nel nome. E tutte a farsi sto cazzo di shatush! Che poi dì la verità, ma almeno lo sapevi che vuol dire “shatush”? Io ho cercato ovunque e alla fine lo scovato, l’ho smascherato, il seduttore è persiano, letteralmente è “il piacere del re”. Neanche a dirlo eh! Ed era un trattamento speciale che veniva fatto sul pelo delle antilopi, e neanche a dirlo quante antilopi sono state sterminate per il piacere del re!

marianna maior

Sì voglio ri-crescere anche da qui, e quindi le parole le voglio conoscere prima di usarle e le voglio incontrare in molti contesti, per ben soppesarle. E poi se il caso sfoggiarle come un nuovo abito che valorizza un pensiero, sottolinea il corpo dell’opinione, dando risalto alle labbra, che le pronunciano e al contempo illuminano gli sguardi di chi le ascolta.

Ecco per l’autunno inverno quest’anno per una volta la moda ho deciso, la seguirò! E in primavera, per dio, lo voglio rifare tutto il guardaroba perché quando si cresce le idee vecchie non vanno più bene e nemmeno i comportamenti, non parliamo dei ragionamenti che vanno sistemati, adattati e spesso diciamoci la verità proprio buttati.

Ecco nel mio piccolo questa moda la seguirò, e nella stagione autunno inverno 2019 – 2020 ri-crescerò!

Sabato 14 settembre sarò a Milano in Libreria Esoterica (per chi volesse venire si trova in Galleria Unione 1 e si inizia alle 17.30) Ovviamente porto con me il mio libro e parlerò di lui. Perché in una libreria esoterica? Lo dico nel video 😉 buon ascolto 🙂

Spiaggia isola di Sliema, Malta

La valigia è leggera, piena solo di voglia di sole caldo e di mare turchino perché come la famosa fata deve far sparire tutta la stanchezza insieme a quella sensazione di “uff non ne posso proprio più”. Il volo è alle spalle e mancano solo 20 minuti di taxi per arrivare in albergo. La giornata è tutta davanti.

Guardo fuori dal finestrino e per i primi 5 minuti il paesaggio mi propone campi secchi con piante di rosmarino e timo qua e là, ma mica poi tanto qua e là e più un laggiù e un lassù. Più avanziamo, più la temperatura del taxi scende avvicinandosi ai 12 gradi, più le uniche cose verticali che sbucano sulla superficie della terra sono: gru, tantissime gru, e intorno alle gru mucchi di mattoni grigi e poi muri di mattoni grigi, che tra un mattone e l’altro lasciano passare la luce e sembra il colmo che a Malta non usino la malta.

Arriviamo in hotel, era un 4 stelle su booking e anche sulla carta di credito, ma è evidente che dopo la nostra prenotazione devono aver restituito le altre tre stelle a un cugino o a un parente bisognoso e così a noi ne resta solo una. Siamo al settimo piano, l’ascensore gracchia, le porte si aprono con l’affanno. Percorro il corridoio che pare quello di un manicomio del secolo scorso, i muri sono decorati da numerose macchie di umidità, mentre dal soffitto pezzi di intonaco cercano di fuggire gettandosi a terra, a volte riuscendoci altre rimanendo intrappolati a metà.

Beh avete capito, e se tanto mi dà tanto evitatemi la descrizione della stanza, aggiungo solo che la vista era su un altro palazzo della stessa altezza talmente ravvicinato che mio marito ed io avremmo potuto presentarci  ai vicini dell’altro palazzo con tanto di stretta di mano.

Non vedo l’ora di uscire da questa stanza. E così lasciate le valige in un angolo, siamo già giù in strada. Mi guardo intorno avvilita e delusa: ma dove siamo finiti? Ok, di fatto siamo a Sliema sull’isola di Malta, a 2 km in linea d’aria da La Valletta. Attraversiamo la strada che ci separa dal mare e guardo la spiaggia e la guardo ancora e ancora. “Ma cos’è quella cosa lì?” Ho avuto un anno intenso e penso sarà stanchezza, o forse la vista mi è peggiorata, quindi strizzo gli occhi più che posso eppure ho gli occhiali da vista su. Cerco di mettere ancora a fuoco ma niente, io vedo sempre una strana spiaggia senza sabbia,  una finta spiaggia ricoperta di malta: cazzo, hanno cementato la spiaggia! Allora, quella che risparmiano non mettendola tra i mattoni va a finire qui.  Guardo mio marito e gli dico  “Ci sarebbero 40 gradi all’ombra se ci fosse l’ombra e questi deficienti hanno cementato anche le spiagge”. Lui non mi risponde niente ma è chiaro siamo entrambi affranti, non era proprio quello che immaginavamo. A me sale un nodo in gola. E’ la mia vacanza capite e quella doveva essere la mia spiaggia in questi pochi giorni.

Ci sediamo a un bar e guardiamo cosa dice la guida.. parla di belle spiagge  ed infatti questa deserta davanti ai nostri occhi non è menzionata, la prima in lista dista 20 minuti di taxi. Andiamo.

Quando arriviamo davanti a noi ecco apparire 700 metri di spiaggia con sabbia vera, e una densità della popolazione (balneare) inferiore solo a Shangai. Tutto intorno alla spiaggia che sarà profonda un 5 metri, inizia subito il cemento dello stabilimento: un bel ristorantone tutto piastrellato ovunque, che si sviluppa a terrazze, senza nemmeno un filo d’erba solo l’ombra di un cespuglio di rosmarino preso d’assalto dalle vespe. Temperatura percepita 55 gradi. Sono le 2 del pomeriggio, siamo il 12 di agosto. E io soffro di pressione bassa, a tratti inizio a vedere nero sento che il sangue si sta lentamente raccogliendo ai miei piedi, forse non era solo pressione bassa ma anche voglia di sparire, nascondersi al fresco sotto terra ma l’impresa sarebbe stata ardua i globuli rossi e anche quelli bianchi avrebbero dovuto smantellare i vari molteplici getti di cemento, quindi impresa impossibile. Questo pensiero insieme alla vista di un cartello con la scritta grande in italiano “gita in barca” mi rialza di un filo la pressione, mio marito che è più veloce di me ha già i biglietti in mano, e così lo seguo verso la barca con difficoltà visto che le infradito di plastica ad ogni passo si attaccano al cemento bollente.

La barca ci porta a Comino in una insenatura dove insieme ad altre 400 barche, alcune grandi altre meno, dividiamo un fazzoletto di mare azzurro ascoltando il ritmo della trap a destra, la vaporwave a sinistra e di qualche altro stile che non conosco più in là a destra e a sinistra, ma ogni barca è popolata più o meno dalla stessa fauna: giovani tatuati, con gli occhiali da sole, depilati, che esibiscono lattine di birra come trofei, accoppiati a giovani ragazze con grossi seni , piccoli costumini che spariscono nei glutei e sguardi marcati da folte, finte ciglia che fanno ombra alle guance. I giovani si dimenano mettendo in scena la danza dell’accoppiamento fatta di sguardi, ammiccamenti con le labbra e colpi di anca che a ritmo di musica chiariscono, se ce ne fosse bisogno, tutte le loro voglie.

Rimaniamo in acqua tutto il tempo riemergiamo solo quando il marinaio leva l’ancora e ci fa segno che è ora.  

Torniamo in albergo, mangiamo, io mi avvilisco,  mio marito invece cerca e trova un altro albergo, sembra bello: lo prenota, lo paga.

Il giorno dopo andiamo a vederlo abbiamo appuntamento alle 9.00 Non c’è nessuno. Il posto è tipo apparthotel, ma nessuno ci apre. Chiamiamo. Non rispondono. Nel frattempo dei ragazzi entrano nello stabile e così entriamo anche noi, la reception sembra bella. Alla fine il tipo dell’agenzia ci richiama e ci avvisa che una sua assistente sta arrivando. Dopo mezz’ora arrivano due tipi italiani, su una macchina i cui pezzi stanno in piedi con lo spago.  La donna scende ci viene incontro e ci dice che è tanto dispiaciuta e aggiunge “quando avete prenotato, booking ci ha trasmesso la prenotazione in ritardo e noi nel frattempo abbiamo dato questa stanza ad altri che l’hanno già presa in consegna..”, “Ma” continua con uno sguardo più insidioso che affranto “abbiamo un’altra stanza da proporvi molto più bella di questa a 5 minuti da qua”. Mio marito è furioso, io anche ma pur bofonchiando e lamentandoci entrambi andiamo a vedere l’altra offerta. Saliamo in auto, e ci sediamo  tra un seggiolino, carte sporche e pezzi di cibo abbandonato. Chiudo la porta. L’uomo alla guida non parla mai , la donna di tanto in tanto sibila che la stanza che stiamo andando a vedere “E’ più bella di quella che avete già pagato credetemi”. Io guardo mio marito e penso a con quanta leggerezza ci siamo affidati ai primi che si sono presentati come i referenti dell’agenzia, che dalla loro auto e presenza era abbastanza evidente non avessero niente a che fare con lo stile dello stabile dal quale ci stavano allontanando. Guardo fuori, sembra di essere indietro di 50 anni in una terra divorata dal cemento, che viene gettato a caso ma ovunque. Il tragitto sembra eterno. Riporto lo sguardo sulle nuche dei due tipi. Un pensiero mi attraversa la mente: e se ci stessero rapendo?

A un tratto l’auto si ferma. Il tipo senza voce, parcheggia in una strada dissestata, ovunque andiamo siamo dentro un cantiere. I tipi ci fanno strada e arriviamo davanti a uno stabile vecchio, almeno lo stile è anni 70, con gli infissi in alluminio marrone e le scale strette piene di polvere come la pianta finta messa nell’angolo del pianerottolo. La tipa, apre la porta. Entriamo. Io guardo davanti a me, le tapparelle aperte a metà lasciano filtrare la luce. La cucina alla mia destra è in legno scuro  tipo taverna anni 80 , alcuni piatti giacevano sul ripiano con ragnatele che li univano al rubinetto. A sinistra un divano con fodera a fiori gialli, marroni, arancioni e verdi, davanti un tavolo rotondo con giornali e fogli sparsi sopra, in parte sul muro una vetrinetta, tutto nella stanza è ricoperto da uno strato di polvere nel quale gli archeologi scavando potrebbero ancora trovare, nei numerosi strati, tracce dei vecchi proprietari, che sembrano scomparsi senza preavviso diversi  anni fa lasciando tutto così com’era.  

Mio marito si infuria, invita i due personaggi a smetterla di prenderci in giro e nella discussione animata, scopriamo poi che i due non avevano niente a che fare con l’agenzia dalla quale avevamo prenotato, ma erano solo amici del proprietario dell’agenzia e che si erano proposti di risolvergli il problema rifilando a noi un appartamento che con molta probabilità era di qualche loro parente andato in ferie.

Ci riportano dove ci avevano preso. E salutandoli li avvisiamo che avremmo fatto continuare la discussione al nostro avvocato.

Per fortuna in tutto questo abbiamo un corso di inglese da fare così andiamo a lezione. La scuola è ok. L’insegnante è brava, gli studenti sono molto giovani e hanno tutti l’area di essere arrivati direttamente dalla serata in discoteca.

Finita la lezione andiamo a visitare il paese. Mi guardo intorno e continuo a pensare ma dove sono finita? Questo posto è una giungla di cemento. Sembra un concentrato di anni 70 elevato alla novantesima potenza. Qui costruiscono palazzi su palazzi, tutti attaccati, altissimi, che pur nuovi son già vecchi. Le costruzioni arrivano sino al mare, là dove la spiaggia non è cementata, le costruzioni si immergono direttamente nell’acqua. Non ci sono giardinetti, né piccole aiuole, né fontane, l’unica che ho visto era senza acqua e piena di immondizia che col passare dei giorni aumentava. I pochi alberi che si vedono sopravvivono a stento ai margini della strada e sono ricoperti di smog e polvere. Nel paesaggio urbano specie la sera si notano diversi casinò e scopro poi che Malta è la patria delle società di gaming, qui sono numerosissime grazie alle agevolazioni fiscali concesse dal governo maltese. L’atmosfera che si respira è infatti quella di un luogo malavitoso, dove regnano bruttezza e disonestà.

La sera decidiamo di andare a La Valletta il taxi ci lascia in piazza del Tritone anche questa totalmente cementata. Lasciata la piazza alle nostre spalle entriamo in città, non è male anche se un po’ sporca. A cena accanto al nostro tavolo ci sono degli autoctoni che parlano italiano, non ricordo come ma iniziamo a parlare e io chiedo come mai non ci siano alberi e come mai sia costruito tutto in modo così fitto e la persona più vicina a me ha iniziato a raccontarmi, parlando a bassa voce, che l’isola è una delle più cementificate al mondo, l’edilizia è senza freni perché in mano a gente senza scrupoli, addirittura si può costruire su edifici vecchi rialzando i piani, al che io penso chissà se poi strutture progettate per due piani siano in grado di sorreggerne altri, ma non lo dico e continuo ad ascoltare, la persona dice anche che l’isola è comandata da diverse mafie e che polizia e magistratura sono corrotte. Insomma ci dice che Malta non è proprio un bel posticino. Solo durante questa cena mi viene in mente il caso di Dafne Caruana Galizia e mi do della stupida per non essermelo ricordato prima.  Dafne infatti è la giornalista maltese che con il suo blog era il punto di riferimento per tutti i giornalisti dell’isola, era perché è stata uccisa da un’auto bomba nel 2017. Dafne nel corso del tempo aveva accusato: la magistratura maltese, fu la prima a dare ai giornali la notizia del coinvolgimento dei politici governativi Konrad Mizzi e Keith Schembri nei Panama Papers, e dichiarò che la Egrant, un’altra società di Panama, era di proprietà di Michelle Muscat, moglie del primo ministro maltese Joseph Muscat. Pochi mesi dopo queste dichiarazioni Dafne è stata uccisa .

La cena finisce e dopo pochi giorni di varie vicissitudini spiacevoli anche la vacanza per fortuna finisce.

A casa da questo viaggio ci siamo portati solo una certezza noi a Malta non ci torneremo mai più. Io di certo non lo farò.

Dalla finestra di casa mia adesso mi godo il verde e la grande quantità di alberi che circondano la mia casa e che ringrazio uno a uno perché ho sentito sulla mia pelle quella sensazione angosciante di essere circondata da un mostro grigio senza volto che divora e distrugge bellezza e armonia per lasciare i propri escrementi grazie ai quali vivono molti parassiti ossequiosi e ubbidienti, cimici puzzolenti che minimizzano e ridicolizzano le proteste della gente, la cui terra e vita sono imbruttite dalla loro presenza.

Con questo pensiero mi siedo al pc e faccio qualche ricerca, vorrei capire qualcosa in più di una terra così devastata e così mi sono imbattuta in molti articoli che spiegano bene la situazione, e poi sono finita anche nella pagina facebook del figlio di Dafne Caruana Galizia, Matthew, che lavora per The International Consortium of Investigative Journalists. E guarda caso aveva da pochi minuti pubblicato un post con il quale riferendosi ai vari movimenti che invitano le autorità maltesi a rispettare l’ambiente e l’estetica delle costruzioni, in inglese ha scritto:

(Questi movimenti) “stanno dimenticando che il governo di Malta è oggi una organizzazione criminale o è al servizio delle più grandi organizzazioni criminali. […]

E ancora

Chi sono le persone che realizzano profitti dal piano di governo che spende 0,7 bilioni di euro pavimentando l’intera isola? Diamo un occhio ai membri del consorzio “pre designato” a vincere la gara d’appalto: James Fenech, un trafficante d’armi in affari con Erik Prince (così che mentre le ONG di ricerca e soccorso dei rifugiati sono bandite dalle acque maltesi da Joseph Muscat, le  persone che traggono profitto dalle stesse guerre che creano rifugiati per il governo maltese vanno invece bene),  Joseph Portelli, uno sviluppatore che gestisce un impianto di calcestruzzo illegale, facendo da prestanome a individui ancora sconosciuti. E infine Kurt Buttigieg, candidato per il Partito Laburista… ”.

Chiudo la pagina di Matthew, alzo lo sguardo verso la finestra.

Malta è una piccola isola che poteva essere un gioiello stupendo e invece, è stata sfregiata e colpita da un brutto cancro, che se prende forza, dal cuore del mediterraneo può estendersi in tutta Europa dove peraltro ha già molte basi operative. L’indifferenza e l’ignavia, soprattutto della politica, la pagheremo tutti.

Chi sono e cosa hanno scoperto? Lo dico qui

Ve lo spiffero in questo brevissimo video con sorpresa finale 😉

ps. guardate con le orecchie 🙂

“SCIA di un’onda abbandonata nel mare
BO-lle d’aria salata che
R-itornano vorticosamente a galla dove
DIO come una montagna le attende.
Inerte.”


tatuaggio
  • Passeggiata in spiaggia e ritorno

Sul bagnasciuga un uomo in piedi guarda il mare, io camminando lo guardo, poi abbasso lo sguardo e vedo una bella pancia, bella tonda, con la pelle tesa, lucida, avrebbe potuto tatuarsi un bel pallone con tanto di scritta “Beerkasa”. “Peccato”, penso “ha preferito tatuarsi le braccia”, tutte e due, da una parte una donna nuda col seno turgido e due mani maschili che sbucano dalla schiena di lei e dall’altra una qualche divinità maschile contornata da serpentoni che alludono a qualcosa poi smentito subito da delle corna. Lo supero.

Più in là un altro uomo sui trent’anni (?) intento a leggere la settimana enigmistica (gulp!) anche lui con le braccia tatuate, Snoopy da una parte e sull’altra qualcosa di confuso..non mi pare però il caso di fermarmi e puntargli gli occhi sul braccio. Così proseguo. Cammina, cammina, là dove cade l’occhio o c’è un delfino che salta sul seno di una donna, o una spada infilata in un polpaccio, o un drago che esce dalla spina dorsale, e ancora, un’ àncora gettata tra i seni, una sirena che si muove sul bicipide muscoloso, e più in là, una spirale che corre e supera la croce appesa su una spalla. Poi ci sono le date, quelle che non puoi dimenticare ma, non si sa mai, e per sicurezza te le segni sull’avambraccio.


E infine mentre sono quasi davanti al mio ombrellone ecco, mancava, la dichiarazione d’amore, “Marco my love”, scritta sul fianco sinistro di una giovane biondina avvinghiata al suo … Loris.
Ok per oggi può bastare..😁

Il canto dell’arcobaleno: la sinestesia sabato 
21 Settembre 2019 
ore 11:00 Convento di San Francesco, Saletta

marianna maiorino

Incontro con Marianna Maiorino.

Come sarebbe il nostro mondo se gli occhi potessero ascoltare e se le orecchie potessero vedere? Perché abbiamo cellule olfattive nel sangue, nel cuore e nei polmoni? Se potessimo avere percezioni sinestetiche con tutti i sensi, cambierebbe il nostro modo di valutare il mondo? Queste sono alcune domande che l’autrice si pone e alle quali cerca di dare una risposta con questo saggio dedicato alla sinestesia, una capacità sensoriale che caratterizza il 4% della popolazione…

IL CANTO DELL’ARCOBALENO: LA SINESTESIA

ore 18,00 in sala Teresina Degan , biblioteca civica- Pordenone

Cosa hanno in comune Jimy Hendrix, Vincent Van Gogh e Nicola Tesla?
Come sarebbe il nostro mondo se gli occhi potessero ascoltare e se le orecchie potessero vedere? Perché abbiamo cellule olfattive nel sangue, nel cuore e nei polmoni? Se potessimo avere percezioni sinestetiche con tutti i sensi, cambierebbe il nostro modo di valutare il mondo? E se dall’attivazione dalla percezione sinestetica arrivassimo a scoprire che alcune forme di percezione, per il momento riconosciute solo agli animali, come la capacità di rilevare i campi elettrici o i campi magnetici, fossero proprie anche dell’essere umano ma ancora dormienti? E ancora, perché Pitagora, Aristotele, l’Arcimboldi, Leonardo da Vinci, Schopenhauer, Goethe, Castel, Kant, Eulero, Rol, Helena Blavatsky, Luigi Veronesi, e molti altri ancora hanno dedicato gran parte delle loro riflessioni a esplorare colore e suono, sia separatamente che insieme? C’è forse qualcosa dentro di noi che brama di essere scoperto e ci spinge in tutti i modi a indagare il mondo delle percezioni, per essere trovato? Queste sono alcune domande che l’autrice si pone e alle quali cerca di dare una risposta con questo saggio dedicato alla sinestesia, una capacità sensoriale che caratterizza il 4% della popolazione…

Annusare con la lingua? Ebbene sì! Lo hanno scoperto i ricercatori del Monell Centre di Filadelfia, secondo i quali le papille gustative sono dotate di ricettori olfattivi, il che, in altre parole, vuol dire che la sinestesia nasce già a livello sensoriale!


Il canto dell’arcobaleno: la sinestesia

Lettura sinestesica

Faccia a terra l’ho scritto io, quindi dargli una lettura sinestesica cercate di capirmi è difficile, è troppo mio e i miei sensi si sono già distesi in queste file di parole per occupare ciascuno insieme agli altri il proprio spazio che è lo stesso di tutti gli altri…

Ad ogni modo ci provo … seguitemi 😉

Ogni riga di questo racconto diffonde l’odore fresco, vellutato e confuso dell’infanzia che si scontra con i toni acri e ruvidi della vita adulta. Nelle parole ci sono i colori della rabbia e del dolore: violaceo, bluastro e verde acido opaco, che senza mischiarsi si alternano come nelle chiazze di benzina lasciate sull’asfalto da automobili mal curate, e pronte a prendere fuoco da un momento all’altro. Sono chiazze di colori netti, che se fossero sulla pelle sarebbero proprio gli stessi di quei lividi che faticano a sparire e anche quando scompaiono continui a vederli nel cuore e a sentirli ella mente dove nutrono il disprezzo anche per te stesso.

I suoni di questo racconto sono rumori sordi che odorano di terra, letame, e guerra, ma anche di latte e luce che arriva all’improvviso aprendoti le narici per mostrarti ciò che non avevi mai visto.

Consiglio di lettura:

ne ho due:

  1. Il racconto è esaltato nella sua degustazione dall’ascolto di “Flow my tears” di John Dowland  che va accompagnato da una tazza di latte caldo con miele e una goccia di rum…
  2. Si può però anche mettere in risalto una parte del racconto giocando sui contrasti così consiglierei una melodia d’annata decisamente più recente optando per Fall di Eminem da accompagnare rigorosamente con l’odore del gelsomino da far diffondere nell’aria senza limiti.

Il motto: ogni cosa lascia un segno…

FACCIA A TERRA

Un atrio in cemento spazioso. Un muro cieco che separava la casa da quella adiacente. Dopo la morte dei genitori le proprietà, quando ci sono, si dividono con muri che diventano coltelli infilati nella terra. A destra una tettoia alta e ampia per il trattore e gli attrezzi che guardava la casa grigia coi battenti verdi scoloriti dal sole. Per arrivarci con l’auto si entrava in una stradina limitata da due muretti scalcinati alti più di me.

Andavamo spesso a casa degli zii. Avevano gli animali e le cose dell’orto. Io amavo il latte fresco, mia madre ci faceva la panna che mettevamo sul caffè. Lo zio era piccolo, magro e anziano. I pantaloni legati con una cintura che faceva quasi due giri intorno alla sua vita. La canottiera bianca, le braccia magre con le vene gonfie, i muscoli vivi di un diciottenne. Camminava avanti e indietro, andava nella tettoia prendeva la forca, attraversava il cortile. Il rumore degli zoccoli che battevano e strisciano sul cemento segnavano la traiettoria. Quando entrava nella stalla tornava il silenzio, il fieno copriva il pavimento e il rumore dei passi. Ma non quelli della voce e del bastone.

Impugnava la forca e iniziava il suo rituale, metteva la paglia, prendendola dal mucchio all’ingresso; ogni movimento era il pezzo di una sequenza, rapida, chiara, automatica, come il respiro. Finito, posava la forca sul muro, prendeva lo sgabello e il secchio si posizionava sotto la vacca e le urlava di stare ferma. Era l’unica cosa che capivo in quello strano dialetto.

In genere seguivo mio padre, entravamo nella stalla mentre la luce restava sull’uscio. L’odore mi pungeva nel naso. Osservavo lo zio seduto sullo sgabello che mungeva quelle strane mammelle grosse, lunghe e tante. Le impugnava a intermittenza, tirandole giù e su, velocemente, lasciando uscire il latte in una traiettoria precisa che andava a finire direttamente nel secchio. Capitava a volte che la bestia fosse irrequieta e lui allora le urlava dietro qualcosa, a volte usava anche il bastone, ma sempre le urlava qualcosa che non capivo ma sembrava fare più male del bastone. Quando la bestia si calmava l’accarezzava e taceva.

Con la bottiglia piena di latte e calda tornavamo a casa.

Un giorno arrivammo nel pomeriggio. Mio padre ed io uscimmo dall’auto; lo zio sbattette la porta di casa e già urlava. Metà imprecazioni rimasero dentro casa addosso al figlio, voleva la moto, credo. Ricordo che mangiava merendine senza ritegno e guardava sempre la tv. Disprezzava il padre perché faceva il contadino, toccava la terra, il letame e puzzava di campagna. Mentre lui sognava di diventare Lupin o forse Umberto Smaila quello che in Tv era circondato da donne mezze nude. Si trascinava per casa, lento e silenzioso come un ladro e, appena poteva, ne usciva. Quel giorno lo vidi attraversare il cortile, non voleva farsi vedere ma io lo vidi e lui con lo sguardo mi lanciò un avvertimento: “Tu non mi hai visto”. Sapeva che non avrei parlato, perché una volta lo feci, e lui mi scaraventò a terra ma mentre io non mi feci niente, lui si inciampò sui suoi passi e finì col muso sul ferro del corrimano. Gli sanguinò il naso tutto il giorno. Da quella volta mi stette lontano.

Di norma tornava giusto per cena, aveva sempre fame, trovava il posto apparecchiato e la madre ad aspettarlo come fosse un gattino randagio. Il padre quasi sempre in piedi, non riusciva proprio a stare fermo nemmeno a tavola. Prendeva e toglieva le cose dal frigo, dalla dispensa dalla tavola. Si sedeva, appoggiava il formaggio sul tagliere, lo tagliava stando attento allo spreco, prendeva il pane e raccoglieva le scagliette, il vino era nel bicchiere, la bottiglia già nella dispensa. Lo ricordo bene, perché quando ci fermavamo a cena ci dava un pezzo di pane, salame e formaggio, due dita di vino per mio padre, acqua e vino per me. Non mi guardava mai negli occhi. Ricordo anche che mio padre di tanto in tanto l’aiutava nei campi, e io rimanevo in giro a giocare con le foglie, i sassi, la terra e osservavo cosa facevano. Se mio padre sbagliava qualcosa, a tagliare la legna o non raccoglieva tutto come gli aveva detto lui, sbatteva l’attrezzo che aveva in mano, dava un calcio alla terra e urlava. Non credeva in Dio eppure lo bestemmiava come fosse comunque la causa di tutti i mali. Era stato partigiano e aveva fatto la guerra. Aveva conosciuto la paura, la fame, l’odio, la cattiveria e gli erano rimaste attaccate addosso. Poi, tornò e decise di ricominciare la sua vita dalla terra, seminandovi cosa era rimasto di lui. I campi, le bestie, il raccolto, il letame tutto aveva un ordine, un uso, un tempo che lui conosceva bene e non ammetteva che gli altri ignorassero. Quell’uomo mi spaventava anche se avevo notato che quando urlava non mi guardava mai, io ne avevo paura e lui lo sapeva. Ero una bambina piccola, coi codini, con due occhi grandi che lo seguivano ovunque. Mi incuriosiva. Come tutte le cose che si temono, mi attraeva. E poi lui, la mia paura la conosceva e vedeva. Il figlio invece non aveva paura. Il figlio se ne fregava. Quel padre era troppo vecchio, troppo contadino, puzzava, razionava cibo e soldi. Quel padre non sapeva godersi la vita. Lui invece era giovane, forte e bello, almeno così gli ripeteva la madre ogni giorno guardando soddisfatta la carne della sua carne. E di carne lei ne aveva troppa.

Quel giorno comunque il figlio non tornò per cena. Mio padre andò a cercarlo e mi lasciò a casa dagli zii. Seduta su una sedia in un angolo con la paura di respirare troppo forte. Poi mi addormentai. Mi svegliarono le urla di mia zia, implorava di non far male al figlio che mio padre aveva recuperato in un bar dopo tre ore di ricerche. Mio zio aveva uno sguardo infuocato, credo di disprezzo e la cintura nella mano. Camminava avanti e indietro sbattendo gli zoccoli. Mia zia gli si metteva davanti cerando di far sgattaiolare il figlio in camera, ma prima di riuscirci si beccò due frustate anche lei, alla fine il figlio riuscì a infilarsi nella porta che portava al piano superiore, subito chiusa dal corpo della madre.

Quella notte non riuscì a dormire, quella cintura usata come un arma non l’avevo mai vista.

Poco tempo dopo accadde un altro fatto. Raccoglievo l’uva e avevo le mani indolenzite dalle forbici. Riempivo il mio secchio e lo svuotavo in quello più grande vicino al trattore. Eravamo nella vigna e mi stavo divertendo. Potevo anche salire sul trattore fermo e guardare tutto dall’alto e anche riempirmi la bocca di uva ma stando molto attenta a non farmi vedere dallo zio, temevo mi sgridasse perché con l’uva ci doveva fare il vino. Vicino a mezzogiorno, ricordo che tenevo il mio secchio con due mani mentre andavo verso il trattore per svuotarlo, incrociai lo zio alla fine del filare, abbassai la testa ma non prima di vedere il suo sguardo trasparente posarsi nel mio, vidi la sua mano allungarsi verso il mio viso; strinsi subito gli occhi mi aspettavo uno schiaffo che non arrivò e rimasi stupita di sentire invece un tocco caldo e lieve segnare come un pennello la mia guancia, e il suono della sua voce declinare in dialetto il mio nome, mentre con l’altra mano mi toglieva il peso del secchio e anche quello della paura.

Mio zio ricordo morì pochi anni dopo.

Mi dissero che la rabbia gli mangiò il fegato. Una settimana dopo il funerale andai con mio padre in ospedale, lo aveva chiamato la zia perché avevano ricoverato il figlio. Questa volta lo avevano trovato nella stazione del paese vicino, disteso con la faccia a terra nel sottopassaggio, i denti rotti, il sangue che usciva da una vena del braccio e un ematoma sul viso che lo deformava. Frequentava gente come lui, persa nell’illusione di una vita senza salite e senza sudore. Ricordo la madre seduta su una sedia verde chiaro dalla quale straripavano le sue cosce, mio padre in piedi la guardava e iniziarono a parlare dello zio.

-“Aveva tutte le ragioni del mondo per urlare e imprecare. Ne aveva passate tante”.

-“Si la guerra…” disse mio padre quasi annoiato.

-“Forse quella è stata il meno”.

– “Di che parli allora?”.

La zia si fissava le mani, gonfie e ruvide e disse.

“Era rimasto orfano a 4 anni con il fratello di due anni più grande. Del fratello non ha saputo più niente, mentre lui fu preso da una famiglia mezza imparentata con la sua. Ma lo tenevano come una bestia. La sua camera da letto era lo zerbino della porta di ingresso. Doveva lavorare per loro e mangiare il giusto per non svenire. D’inverno mentre gli altri stavano dentro al caldo a magiare e bere lui stava fuori e aveva imparato a proteggersi dal freddo muovendosi come un furetto.

Fino ai 15 anni circa ha vissuto così. Poi se ne è andato, ha trovato lavoro in un paese vicino come garzone tutto fare. A 18 anni è partito per la guerra. Ma più di 10 anni vissuti come un animale non glieli ha più tolti nessuno. Non ha mai dimenticato quei cani che l’hanno lasciato a dormire sull’uscio di casa quando aveva 4 anni.

Ho raccontato questa storia a Claudio prima che il padre morisse, speravo lo aiutasse a cambiare o solo a comprenderlo. Ma era come se gli stessi dettando la lista della spesa che lui nemmeno si appuntava. Forse gliel’ho raccontata troppo tardi o troppo male”.

Mio padre rimase fermo in piedi a fissarla. Dalla porta spalancata a fianco entrò poco dopo il giovane medico di turno, facendo rimbalzare sui vetri il rumore dei suoi zoccoli.

-“E’ la madre di Claudio Fantin?”

– “Si”.

“Signora, mi dispiace ma suo figlio è molto grave. E’ stato picchiato molto duramente, ha il fegato spappolato e un ematoma in testa molto esteso. Potrebbe non farcela”. Il medico allungò una mano a mia zia e continuò: “Nella tasca dei pantaloni gli hanno trovato solo questo foglietto”.

Lei lo prese, era piegato in quattro e lo aprì. Era il foglietto di un block notes, ingiallito dal tempo e macchiato d’unto.

C’era scritto:

“A 4 anni ha perso i genitori. Fino a 15 ha dormito su uno zerbino come una bestia. A 18 è partito per la guerra. A 50 anni gli sono nato io”.

 

(Stefano Benni, ed. Feltrinelli, 2017)

Lettura sinestesica

Pagine che scorrono tra le mani, acqua lunare che disseta e illumina la mente. L’immagine di copertina, una bellissima opera di Luca Ralli, afferra lo sguardo e ti catapulta nella dimensione di Prendiluna senza darti alternative e il viaggio inizia…

Il primo passo mosso in questo nuovo mondo creato da Stefano Benni scatena un suono nell’aria dove in trasparenza appaiono graffi musicali, è la voce di Davide Bowie: saranno le sue note a illuminare la lettura.

Consiglio di lettura.

Accompagnare la lettura con l’ascolto di Heathen di Davide Bowie. Per il palato invece si consigliano cipolline in agrodolce e champagne, per gli astemi centrifuga di melograno.

Motto: Leggere disseta.

ciò premesso…

Cos’è Prendiluna

Una favola ambientata ai giorni nostri, ma con la lucidità di tratteggiare la società attuale senza nascondere niente: nemmeno un manuale di sociologia, di psicologia e di politica insieme avrebbero potuto fare meglio.

Di cosa parla

E’ un libro che racconta l’oggi senza fare sconti a nessuno, del resto è evidente, il presente è una realtà dilaniata su molti fronti forse tutti ma Stefano Benni, usando la dimensione della favola, trova il modo, da una parte, di poter dire tutto dando al suo pensiero la forza di una libertà consapevole e amara, dall’altra, di recuperare il sogno e lasciar aperta la porta dell’impossibile. Una porta che semmai qualcuno è riuscito ad aprire non lo ha mai fatto con la ragione quanto piuttosto con una sana dose di follia.

Chi è Prendiluna

Ecco spiegato perché (forse) la protagonista, Prendiluna, da cui il titolo del libro, è una vecchia maestra strampalata in pensione alla quale viene affidata, da un gatto fantasma, la missione di salvare l’umanità, e gli altri due personaggi principali sono invece gli “ospiti” di un manicomio dal quale riusciranno però a scappare dando inizio, insieme alla maestra, alle vicende del racconto.

Gli altri personaggi

Altro dato che secondo me merita di essere portato in evidenza sono i nomi dei personaggi; non ne anticipo neanche uno, anche se confesso che nella versione precedente del post qualcuno l’avevo messo. Perché li ho tolti? Perché penso che in questo libro anche i nomi abbiano un ruolo e contribuiscano a dare forza a tutto il racconto, anticiparli quindi vorrebbe dire togliere qualcosa alla magia della prima lettura. E poi, i libri come i film, non andrebbero mai raccontati, né svelato il loro contenuto o se preferite il gergo moderno “spoilerati”. Ma, e qui non ci sono né dubbi, né opinioni contrastanti: i libri belli vanno raccomandati, questo sì, e io, Prendiluna lo raccomando con tutto il cuore: leggetelo è stupendo!

se ti è venuta voglia di leggerlo…  vai qui   per la musica qui

Per sapere quando ho incontrato Stefano Benni invece il posto giusto è qui –> Stefano Benni, Prendiluna ed io. 

Lettura sinestesica

Con “Quasi niente” siamo nella montagna di Corona e di Maieron, e la prima cosa da capire è che per affrontare ogni pagina ci vuole la giusta attrezzatura: moschettoni, chiodi, picozza, corde varie, per salire o per scendere, questo dipende sempre e solo dal punto di partenza che è fuori dal libro, di solito di fronte.

Un appiglio sicuro comunque, pagina dopo pagina, lo offre Luigi Maieron, perché riporta la narrazione sempre alla sua essenza, al suo fine. E lo fa anche là dove ricorda la saggezza montanara, cioè la capacità di guardare “sempre la vita dall’angolazione dell’essenzialità”. Ma cos’è l’essenzialità? È eliminare il superfluo, dice, andare subito alla sostanza, al cuore delle cose. La chiama saggezza montanara. Saggezza? Forse, di sicuro però, è un atteggiamento che ha il suo rovescio; andare direttamente all’essenza delle cose seguendo la linea retta, può avere cioè  l’effetto di una stilettata o di un bisturi e quando la mano non è quella di un chirurgo esperto, può fare molti danni. Questo il problema di alcune persone.

La sensazione leggendo questo libro è che le pagine, tornino alla loro essenza, sono di legno, alberi ancora vivi che coprono le montagne e ogni montagna non è che il pezzo di una storia dura, difficile, costellata dal dolore, dal fallimento, che può essere superato certo, ma solo vivendo.

Consiglio di lettura.

Porsi una domanda: di cosa ho bisogno per essere felice davvero?

Di cosa parla il libro

Racconta le storie degli ultimi, delle persone che hanno dovuto affrontare ostacoli duri e l’hanno fatto, a modo loro. Anche arrendendosi. Questo ‘Quasi niente’, è un libro che dedica le sue pagine alla sconfitta, al fallimento, ma che, secondo gli autori, hanno diritto comunque di essere ricordati, bisogna “lottare contro la dimenticanza” afferma Mauro Corona. E un passo che coglie il senso di tutto è il seguente:

“In realtà dobbiamo capire che nessuno è un fallito. Uno nasce, cresce e muore con quello che gli capita”.

Ditelo a chi vi giudica,  a chi fosse stato nei vostri panni.. e chissà…che fine avrebbe fatto…

Il fallimento è un’opera pia?

Questo è quello che alla fine afferma Corona, che tra le sue (troppe) citazioni, mette anche uella di  François de la Rochefoucauld: “nelle disgrazie dei nostri amici c’è sempre qualcosa che non ci dispiace affatto, perché noi non siamo buoni”. Il fallimento degli altri in altre parole ci renderebbe felici, e in quest’ottica, il fallimento, si trasforma in una vera e propria “opera pia”, un modo per fare del bene agli altri, “chi fallisce di fatto rende felice un sacco di persone”.

Punto dolente del libro

L’abbiamo già detto in apertura, con “Quasi niente” Mauro Corona e Luigi Maieron ci portano nelle loro montagne. Corona è uno strano scrittore dal carattere plasmato dalle vette su cui si arrampica, forse per cercare di risalire la sua anima e guardarla in faccia,  ha sì i modi semplici della gente di montagna, ma il suo pensiero sa avere anche la profondità vertiginosa dei precipizi che si incontrano nelle camminate più impegnative.

Tuttavia, e arrivo al punto,  in questo libro c’è troppa autoreferenzialità, troppe citazioni, troppo bisogno di dover dimostrare qualcosa. E ancora di confessarsi ma solo per autoassolversi: “sono stato un esibizionista , ma leale”, “ho interpretato Giuda per vent’anni la notte del Venerdì Santo durante la processione qui a Erto… tanto che ho continuato a tradire. Però ho la lealtà di confessaro” e ancora “Sono stato un lazzarone però bonario”. Insomma c’è tutto un universo di normalità, cioè di vanità, di tristezza, di vita che lui, Corona, si diverte a camuffare o a nascondere infilandola nei libri. Ma questo approccio, secondo me ha sminuito proprio quell’essenzialità che il libro vorrebbe invece esaltare.

Ps. Ma, se c’è da una parte Corona che tira la narrazione troppo su di sè e sulle citazioni che affollano le pagine, per fortuna c’è Maieron che la riporta alle storie narrate, a quel che sono, semplicemente. Quasi niente in realtà è tutto il resto.

Dietro le quinte del Teatro Verdi

Era la serata di chiusura di PordenoneLegge… eravamo Lui ed io, uno di fronte all’altra dietro le quinte del Teatro Verdi di Pordenone (si d’accordo non eravamo soli ma per me era come se lo fossimo).

teatro Verdi Pordeone

Stefano Benni

Io, con la consapevolezza di avere davanti a me uno scrittore magnifico, uno che fa vivere nella sua letteratura tutta la varietà che esiste in una lingua, riuscendo così a rappresentare la vita in tutte le sue sfumature con abilità chirurgica e dissacrante; e Lui, che pur concentrato nel dover entrare in scena davanti a un teatro stracolmo, a me, una tra le tante persone che incontra per lavoro, al momento donnina schermofila (per dovere), ha dedicato due parole e la dedica sul suo libro con modi semplici, spontanei e riflessivi.


Compaiono i personaggi

Poi è andato sul palco e proprio come parlava con me dietro le quinte, nello stesso modo, con la stessa naturalezza ha iniziato a parlare a non so quante persone. L’unica differenza, rispetto a quando era con me dietro le quinte, è stata che sul palco con lui, improvvisamente, sono comparsi tutti i personaggi di Prendiluna, sbucavano lentamente da dietro i drappi del teatro, lo sostenevano e guidavano nella lettura dei brani mentre, dall’altra parte, il pubblico ascoltava, rideva, si riconosceva, rifletteva.

 


IN COSA CREDE STEFANO BENNI

20170917_210417 (1)

 

Ma sul palco c’è stato anche spazio per alcuni racconti intimi, Stefano Benni infatti ha raccontato di quando gli hanno chiesto se era credente e lui ha risposto: “Io sono molto, molto, molto, credente. Io credo nella grandezza dell’universo, dei sentimenti, delle emozioni, credo nel dolore, nella sofferenza, credo nell’amicizia, credo nella Nutella. Credo in un sacco di cose.” Poi prende fiato e dice scandendo bene le parole: “N o n   c r e d o     p e r   n i e n t e   nelle religioni monoteiste specialmente quelle che usano le parole  E R E  S I A   E  I N F E D E L E.


Prendiluna, Stefano Benni , ed. Feltrinelli

Come è nata Prendiluna

Poi ha svelato a tutti di quando aveva deciso di non scrivere più romanzi, e ne era convinto, sino al giorno in cui ha ricevuto la mail di una studentessa straniera che gli ha scritto, con un italiano incerto, che avrebbe tanto voluto scrivere una tesi su di lui “perchè è ancora momentaneamente vivo”. La ragazza intendeva che posto che è vivo poteva fargli un sacco di domande, ma in realtà, ha spiegato Benni, quella frase ha espresso un concetto filosofico notevole e – ha detto – “mi ha ricordato che sono momentaneamente (ancora) vivo, e devo approfittarne”: da questa riflessione è nato “Prendiluna”.

 

E qui mi fermo. Le cose raccontate sul palco sono state tante, “l’incontro con l’autore” , come si dice, è stato meraviglioso, si è perso di sicuro qualcosa chi non ha potuto assistervi. Io ho cercato di raccontarne i tratti salienti tralasciando la lettura dei brani del libro perché o si ascoltano dall’autore e Benni  sul palco del Verdi di Pordenone è stato esilarante, o si legge il libro. per quanto riguarda quest’ultimo punto io l’ho letto e credo che lo rileggerò e rileggerò ancora…Se volete sapere perché continuate a leggere qui Prendiluna.